Segni di Pace
Dal primo fortuito incontro e confronto con la poetica di Giuseppe Siniscalchi, grazie alla presentazione di un comune amico – ricordo ancora che eravamo in visita a una mostra curata dal Politecnico al Museo della Scienza, inconsci di tutto quel che sarebbe seguito, e sarebbe stato molto, e iniziò nell’istante preciso in cui potei ammirare qualche fugace foto delle sue opere sul telefonino; inutile dire che l’istante dopo eravamo già convinti di essere animati entrambi dalla stessa forte passione verso l’arte il patrimonio culturale del nostro Paese, e complici nell’impegno di volerlo salvare e valorizzare – capii immediatamente che gli strumenti a cui dovevo guardare, non erano quelli di cui si avvale normalmente l’analisi critica contemporanea, per definire i confini estetici di un’esperienza artistica, in questo caso troppo deboli, bensì quelli solidi e temprati della storia dell’arte, unici in grado di afferrare il messaggio di una poetica così intrisa di storia personale e umana insieme. Infatti quella che si presenta è una storia non semplice da raccontare, perché se da una parte presenta una complessa simbologia di carattere archetipico, dalla quale si genera quella lingua dell’intuito creativo che affonda le radici nella prima infanzia, portando la poetica ben più in là dei meri limiti estetici, a essere vera esperienza totale di vita, dall’altra affina i segni di una semantica che indica una precisa potente volontà dell’opera d’arte: quel momento epifanico, quel gesto squarciante il velo di Maya, e più ancora, quella possibilità di inaugurare un nuovo mondo che, secondo l’indimenticato Hans-Georg Gadamer, apparteneva solo all’arte. In questa portata inaugurale consiste il messaggio più profondo dell’opera di Siniscalchi, che la storia dell’arte insegna attraversare il segno dei grandi visionari, Van Gogh in testa, dal quale assume il testimone cromatico, e poi molti altri, fino a Basquiat, di cui prosegue la traccia, innestata nel grande solco iniziato oltre 18000 anni fa, nelle profondità labirintiche delle grotte di Altamira, e così giunto fino a noi. Qui e ora, per portare avanti il messaggio salvifico di cui si è fatta da sempre garante l’arte dei grandi visionari. La matrice della pittura di Siniscalchi è infatti di una qualità sorgiva che pesca nel profondo di ciascuno di noi, quell’infinito interiore che ha da sempre come paradigmi primi il segno e il colore. Di qui facile intuire quale sia il linguaggio: un segno primario di canone infantile, che parla di memorie lontane, tanto che – se il colore è simbolo – non sembra azzardato definire ancestrali. Se poi, come insegna Jacques Lacan, nel linguaggio si stabilisce il rapporto con l’Altro, nel segno del “desiderio”, e come ci indica Roland Barthes, in quel segno si può leggere il senso, la tensione ultima di tutto il messaggio che l’opera d’arte intende presentare, ecco che la poetica di Siniscalchi concepisce un segno che porta inequivocabilmente verso l’Altro. Un “altro” inteso sì come “linguaggio” formulato dal “desiderio”, ma il desiderio è qui quella Kunstwollen, quella “intenzionalità artistica”, come l’ha chiamata Alois Riegl, che ha la capacità di render presente una vera e propria Weltansschauung, una “visione del mondo” precisa e assoluta. Ecco dischiudersi un mondo antico, arcano, fatto di una simbologia elementare quanto immediata, in cui torna quell’alfabeto pittorico col quale ogni gesto creativo già dall’infanzia produce il proprio universo linguistico. E personalissimo è l’universo simbolico di Siniscalchi, la cui grandezza è fermarsi esattamente là, un attimo prima che la lingua diventi quella degli adulti, quella Babele che sfugge al dominio dell’essenziale e dell’immediato, incomprensibile alle diverse culture, alle diverse società, alle diverse identità. Un linguaggio comune, un nuovo esperanto, sembra invece potersi riconoscere in questa originaria espressione pittorica che, con tutta la sua carica vitale e simbolica primaria, parla a chiunque, e gioca con tutti, con semplici gesti e segni, come un bambino sulla spiaggia che costruisce il suo castello di sabbia. E se Kafka ci ha insegnato che il castello può essere anche un grande, meraviglioso gioco per adulti, Siniscalchi ci esorta a non farlo diventare una torre, dove facile è perdere il dominio dei sensi, ma a riguadagnarne, in un alfabeto primario di valori tattili, il significato profondo. Ecco apparire, dal linguaggio volutamente infantile, in una continua ricerca dell’io basilare, alla volontà salvifica, all’idea di un simbolismo tanto antico quanto arcano, i primari del linguaggio segnico di Siniscalchi. In questa poetica germinano così i semi di una nuova dimensione narrativa ed espressiva insieme, prima interiorizzata dall’autore e poi riportata in quell’omino che, topòs costante di un immaginario iconografico, diventa sulla tela il primo osservatore della realtà “al di là” di essa. Una realtà spontaneamente rielaborata, e tutta ricomposta in un universo-mondo di natura pittorica. Ed ecco apparire quel mondo, nelle tante opere, e in ciascuna di esse, che dall’infanzia raccontano l’universo poetico del loro autore. A cominciare da “Riposo – meditazione dopo fatica”, in cui si ritrova, nello smalto scrostato come di automobiline dimenticate al sole, la memoria di un’epoca passata, lontana, un tempo dei giochi, riconquistato ora, nel momento del riposo, e della memoria, in fattezze di un’umanità riportata a meditare su se stessa. Ecco che riaffiora, insieme al Pensatore di Rodin, il ritratto di Van Gogh: uno dei tanti fatti da Francis Bacon, che è quello dell’innocenza dell’umanità tutta. Ma poi i “Giochi di bambini” si fanno sempre più difficili, meno innocenti, come evidenzia l’arrotolamento del segno del pastello grasso, che litiga con la tela, gomitolo afferrato da un gatto invisibile che continua a giocare da un mondo “oltre lo specchio”, come quello di Alice. Qui lungo è il novero di artisti più o meno conosciuti, come Norberto Proietti o Riccio, pittore milanesissimo ma oscuro alla città, che nel tempo sono tornati bambini, ovvero massimi creatori, come insegnava Munari, grazie a quel segno vitale e giocoso. In “13” quel filo sembra poi trovare un telaio, un arcano arcolaio che lo riporta ad essere “segno tessuto”. Difficile non pensare a Basquiat, e agli elementi primitivi della grafica rupestre. Sempre di matrice milanese, ma più complesso, il segno nello “Scalatore”, tanto che su di esso si fermerà a riflettere per oltre mezzo secolo, dalla prima mostra del ’62 che ne consacrerà la ricerca, il gruppo de Cenobio, in testa a tutti Ugo la Pietra e Angelo Verga. Poi la matrice incisoria dei “Quattro fiori” evidenzia ancora la volontà di ricerca di un segno, ma più grafico, bruegheliano nel senso dell’arte incisoria olandese, come quello che Van Gogh intravvedeva nelle opere di Rembrandt. Un segno che scava, che lascia traccia, e, come il solco nella terra, intende accogliere il seme salvifico che l’arte sembra a volte capace di germinare. Quando si entra, come varcando le porte di Babilonia, nella “città di Fantasia” – il nome è proprio, e si aggiunge a una delle tante città invisibili di Calvino – si dispiega una metropoli di Lego che consegna la propria misura geometrica all’enorme gioco di un architetto-bambino, forse il piccolo Van Doesburg, certo l’esatto opposto di quell’architetto-demiurgo tanto amato dagli architetti utopisti del Settecento, e sospirato dai massoni del secolo successivo. Ecco allora, ad ammonire del peccato di ùbris verso cui si rischiava di andare incontro, con l’aspirazione a creatori del mondo e delle sue regole, le “Architetture precarie”, che riportano a un segno di canone piranesiano, ampio nel costruire forme quanto crudele e sprezzante nel denunciarne il vacillante e assurdo equilibrio. Tanto da raggrumarsi, in “Astratto”, intorno a un puro sintetismo di forme, come nell’ultimo Mondrian, in cui al ritmo di un “Broadway Boogie-woogie” viene sostituito qui un intento progettuale, in toni di blu (non a caso codice estetico della lingua del progetto in ambito anglosassone). Ma come nel sonno innocente dell’infanzia, a un fugace incubo notturno, o a un sogno divinatorio, segue la quiete del risveglio, accompagnato dalla sonora, pausata “Alba sul lago”, in cui gli alberi ricompongono una veduta di stampo giottesco, passata attraverso lo sguardo abbagliato del Doganiere e quello appuntito e astraente di Carlo Carrà. Sotto, china, la figura di quell’omino, visto per la prima volta quella notte di luglio del 1888, in un desolato caffè di notte, sperduto in una Parigi in cui unico a vagare sembrava essere Vincent. E Van Gogh torna poi in quell’omino sperduto nell’”Alba sulla montagna”, ma qui accompagnato, nella sua transumanza artistica, dall’amico Emile Bernard, dal cui pennello simbolista sembrano essere state quelle vacche al pascolo, sottratte a una vecchia tela (Bretoni sul prato) e riportate, come tessere di un mosaico (quella d’altronde la chiave del cloisonnisme), su questa, omaggio alla prensile fantasia di un altro grande “visionario”, a distanza di un secolo. Nell’assordante visionarietà profetica dell’arte di Siniscalchi, proseguendo nell’indagine visiva delle opere, molti sono i nomi che riverberano, dalle notturne, oniriche visioni di William Blake, alle essudanti pulsioni gestuali di Pollock, dalle smaltate eleganti sinfonie del colore, reduce degli incanti estenuati di Schifano, allo scoppio di un primordiale “Big Bang”, che non può non ricordare quello con cui Kandinsky sovverte le leggi del primo periodo “impressionista”, del quale ancora sembra serbare memoria la distesa pagina di “quiete sotto la luna”, per gettarsi nel vortice vorace dell’espressionismo. Un espressionismo che arriverà a una “felicità” tutta sua, molto diversa da quella Joie de vivre di esito matissiano, perché fissata a un preciso simbolo di redenzione, rinnovato crocefisso, che Bacon e poi molti altri – pensiamo solo al contemporaneo Hermann Nitsch – decideranno di fare proprio. Una precisa iconografia, che ritorna continuamente, così come torna il tema della malinconia, precisato dalla ricerca di Munch, nella figura dell’omino con cappello, nel simbolo della croce e della pace Wa, della luna al tramonto, nei rossi, nei gialli e nei blu smaltati che, ricomponendo l’unità dei primari, si raggrumano tutti insieme in quel vortice. Ma c’è dell’altro, ancora più dirompente, rispetto a quel precario equilibrio che sostiene i codici dell’arte occidentale: in quel gorgo profondo, dove si intrecciano strane contaminazioni, nel quale il segno dureriano si allaccia a quello di Vedova e Kline, per poi ricomporsi in paniche visioni alla Bonnard, inizia a ribollire un nuovo brodo primordiale, che darà vita a una totale palingenesi artistica, in cui si coglie tutto un nuovo universo semantico. Un universo che si nutre della cultura figurativa buddista, nella costante e continua proliferazione di forme, e della tradizione iconografica giapponese, nella solida tensione che di contro la trattiene, riconducendo tutto a quell’idea rappresentata dal simbolo Wa, ideogramma che fa da ponte tra i due mondi e attraverso il quale i due segni originari, i significanti che indicano la spiga (il nutrimento spirituale di cui è costituita l’arte) e la bocca (l’anima umana a cui l’arte è destinata), si incontrano e si uniscono per dar vita a un nuovo significato di Pace. Si giunge così a riconoscere quel “faro della pace” luce del nuovo mondo, l’universo che in questo modo emerge dalle profondità dell’animo umano, nato da un simbolismo arcaico, primordiale, che a valenze apotropaiche, usate a difesa del messaggio sacro e salvifico, unisce i segni di una nuova pace. La pace, la bellezza con cui l’arte può salvare l’umanità.